Ancora grazie per avermi invitato tramite don Stefano, ma soprattutto grazie per avermi accolto perché ho respirato da subito un clima di famiglia. Ci sono delle cose che si dicono, altre che si respirano, non si percepiscono, che sono nell’aria, quindi ho sentito da subito la vostra preghiera, il vostro affetto e davvero questo clima di famiglia al di là della mia persona, ecco, mi sembra, però ci metto davanti un verbo importante perché la conoscenza richiede parecchia frequentazione. Però mi sembra che la vostra è una comunità che cammina bene. Poi, comunità perfette le troveremo in paradiso, perché questo rassegniamoci come famiglie perfette, mariti perfetti, mogli perfette, le troveremo in paradiso. Finché siamo su questa terra, ecco, dobbiamo accontentarci di quello che siamo.
Però davvero arrivando Stefano e don Giorgio mi hanno fatto visitare un po’ i locali, mi hanno spiegato le attività che portate avanti e poi, nel celebrare l’eucaristia, ho avuto questa bella percezione di una comunità viva, di una comunità in cammino. Anche da un punto di vista storico mi sembra di capire che questo quartiere si è formato tutto sommato da poco, quindi diceva don Stefano, ci sono tante famiglie giovani, quindi l’età media è piuttosto bassa e questo davvero vi incoraggia. Qualche settimana fa sono andato in una parrocchia del centro; poverino, il parroco l’ha detto in tutte le messe, “sapete, viene il nuovo vicario”. A Messa erano 15 persone, e diciamo che l’età media oscillava tra i 92 e 97 anni. E mi è capitato quello che mi era capitato giù ad Agrigento. Si è avvicinata una vecchietta alla fine della messa ha detto “Ah, don Baldo che bell’omelia ha fatto”. Io ci stavo credendo, perché te lo dicono. E dice “peccato che sono sorda!”.
Allora, vi rubo solo qualche minuto perché immagino già avete avuto occasione di conoscere il piano pastorale di quest’anno. abbiamo presentato lo schema, proprio l’ossatura essenziale, a fine giugno, il 24 giugno in occasione della festa di San Giovanni, poi durante l’estate l’abbiamo rimpolpato un po’, l’abbiamo arricchito con il contributo degli uffici e di coloro che ci hanno lavorato e poi a fine settembre lo abbiamo presentato in ogni settore. Credo che il vostro si sia riunito al Divino Amore. Me l’ha raccontato don Dario. C’erano ancora anche alcuni laici dell’equipe pastorale Diocesana.
Su cosa vorremmo lavorare quest’anno? Questo è un anno particolare. L’impressione che appena arriverà il giubileo, e ci siamo perché mancano due mesi esatti al Giubileo che inizierà il 24 dicembre nella Notte di Natale A San Pietro. Poi ci saranno le altre aperture delle porte sante, quindi San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo Fuori le Mura. Quindi è chiaro che appena arriverà il Giubileo, anche nelle nostre comunità saremo un po’ presi dai vari pellegrinaggi, Porta Santa, i pellegrini che arriveranno da tutta Italia e dal mondo. Quindi però ci sembrava giusto un po’ continuare sulla scia degli ultimi anni. Quando è venuto qui Don Angelo, il cardinale De Donatis, ha parlato della formazione perché lo scorso anno abbiamo insistito molto sulla formazione. E quest’anno, come dire, abbiamo raccolto il frutto del lavoro degli anni precedenti.
In linea di massima vorremmo lavorare almeno su cinque piste, non vi scoraggiate se vi dico molte cose perché poi ogni comunità sposa quella parte di piano pastorale che sente un po’ di più sulle proprie corde. Quindi non è detto che dobbiamo fare tutto, però io ve lo espongo perché secondo me nella narrazione completa possiamo rintracciare quelli che sono i vissuti, anche i bisogni delle nostre comunità.
1) Come prima cosa, quello che stiamo per vivere stasera, cioè crescere nella corresponsabilità. Sapete che l’anno scorso abbiamo lavorato molto sui nuovi consigli pastorali parrocchiali che non servono, come dire, a riempire una casella in modo tale che il parroco possa dire “ce l’abbiamo” tipo le figurine Panini. Attenzione, il consiglio pastorale parrocchiale esprime realmente che idea di chiesa abbiamo, perché in una parrocchia che dovesse impostarsi con la centralità esclusiva del parroco, è una parrocchia povera. Il parroco ha una responsabilità, non c’è ombra di dubbio, la responsabilità legale e la responsabilità della visione di insieme; è il padre, no? È il padre di famiglia, è colui che, appunto, garantisce l’unità all’interno di questa ricca famiglia che è la vostra parrocchia.
Ma il parroco, esattamente come il padre di Famiglia, sa di poter contare su sulla responsabilità condivisa degli altri componenti della famiglia. tutti noi siamo stati figli, io non mi vergogno a dirlo, anzi per me è un motivo di vanto. Io sono figlio di contadini, e ricordo che l’arte della campagna, specialmente in Sicilia, è stata sempre sacrificata e difficile. E ricordo quando papà buonanima, adesso è in cielo, arrivava a sera e raccontava a mamma un po’ degli stenti perché bisognava comprare il trattore, qualche debito, qualche cambiale, eccetera. E noi figli eravamo lì ad ascoltare; non eravamo maggiorenni, però ci faceva bene ascoltare il sacrificio di un papà. La corresponsabilità dei laici è proprio in questa linea, di chi è la parrocchia? La parrocchia è di tutti. Don Stefano oggi c’è, domani potremmo avere l’esigenza di lui in un’altra parrocchia, come capita a noi preti, anche a noi vescovi. Il vescovo potrebbe dire serve don Stefano in un’altra parrocchia Y, la comunità rimane. Rimanete voi, i catechisti, i bambini, tutti. Questo cosa significa? Che non dobbiamo pensare “c’è il parroco, si fanno alcune cose, non c’è il parroco, non si fanno alcune cose”. La parrocchia, proprio perché è di tutti, esprime una vitalità e fa sentire una responsabilità che è condivisa. Ormai da alcuni anni e la Chiesa a livello mondiale, anche la Chiesa italiana sta cercando di far comprendere qual è la differenza tra collaborazione e corresponsabilità. Collaborazione è: io arrivo in parrocchia, faccio un pezzettino, che sia Caritas, che sia catechesi, che sia un’altra cosa, e me ne vado. Corresponsabilità è: che io ho la responsabilità non solo di quello che sto facendo, ma questa responsabilità la condivido con gli altri. Faccio soltanto un esempio, uno su tutti, la catechesi. Poco fa arrivando ho conosciuto alcune catechiste. Lo sappiamo tutti che oggi anche solo fare catechesi o catechismo che dir si voglia, preferisco catechesi, è difficile. I bambini ragazzi non li tieni più. C’è un problema di linguaggio, c’è un problema di contenuti, c’è un problema di famiglia, di partenza, c’è un problema di metodologia, perché noi siamo ancora abituati a impostare la catechesi con una metodologia che è quella dei nostri tempi, la lezione, il parlato. I ragazzi non hanno più questi linguaggi, hanno il linguaggio visivo ormai e qui non dobbiamo giudicare se è giusto o sbagliato, è un dato di fatto. La responsabilità della catechesi di questa parrocchia di chi è? È del parroco, è dei catechisti e del gruppetto numeroso di catechisti che c’è, o è di tutta la parrocchia? Perché se salta la catechesi in una parrocchia, non c’è più futuro, cioè non c’è più la trasmissione della fede, che è ciò che garantisce a una comunità il suo prolungamento. Questo vuol dire responsabilità condivisa. Corresponsabilità. Qualcuno dice “Ah, questo vuol dire che i laici contano più dei preti oppure c’è questo braccio di ferro?” Non c’è nessun braccio di ferro. C’è semplicemente il dire: guardiamoci negli occhi, Parroco, vice parroco, sacerdoti, operatori pastorali. Proviamo a passare dall’io del sacerdote al noi della comunità. Il sacerdote, il parroco devono prendere delle decisioni, non c’è ombra di dubbio, ma dice il diritto e noi l’abbiamo scritto nel consiglio pastorale, “sentito il parere del consiglio pastorale parrocchiale”. Perché voi il territorio di questa parrocchia, lo conoscete certamente meglio del migliore dei parroci che avete avuto in questa parrocchia, così non si offende nessuno. Il migliore dei parroci che potrebbe arrivare in questa comunità o potrebbe esserci in questa comunità, non conosce la comunità così come la conoscete voi. E allora c’è un bisogno, da parte di chi la guida, di incentivare la corresponsabilità, ma anche da parte vostra. Significa portare all’interno degli organismi di partecipazione, che sia il consiglio, che sia l’equipe, che sia quello che c’è in questa comunità, portare la voce della comunità, non i bisogni del singolo. Come sta questa comunità? Come sta questo territorio? Quali sono le esigenze? Quali sono le priorità? Qual è il vissuto concreto? Perché il regno di Dio non è che si chiude con i confini di questa parrocchia, di questo edificio. Il Regno di Dio deve arrivare a tutti. Anche qui consentitemi un esempio. Se nel territorio di questa parrocchia ci sono tante persone sole, non è che la parrocchia può fare finta di chiudere gli occhi e dire non ci sono, ci sono! Cosa facciamo come parrocchia per le persone che sono sole? Cosa facciamo come parrocchia per i tanti ragazzi che purtroppo, sempre di più e con maggiore frequenza, imboccano delle strade sbagliate? Questo vuol dire corresponsabilità. Allora, crescere in questa corresponsabilità perché è un fatto di mentalità, è un fatto anche culturale, è un esercizio. Quindi incontrarsi, come stiamo facendo questa sera, incontrarsi di più, confrontarsi, ascoltarsi. Nessuno di voi, nessuno di noi ha la verità in tasca, no? Ma mettendo insieme i vari tasselli, i vari pezzetti che arrivano, un po’ dalla famiglia, un po’ da qualche coppia più giovane, un po’ da qualche persona che da più tempo abita in questo territorio, come un puzzle, si compone e poi alla fine insieme prendiamo delle decisioni. Maturano ecco all’interno di un contesto che è di preghiera, ma anche di confronto sincero, per cui il consiglio pastorale non è una riunione di condominio, no? Vediamo anche la spunta di più se il coro o i giovani o le famiglie. Sarebbe sbagliatissimo, ma è davvero un tendere, un alzare nel tendere il più possibile. Io dico sempre, i consiglieri o comunque i laici dei consigli pastorali non dovrebbero mai parlare dei loro personaggi, insomma, ma sono qui, siete qui in rappresentanza di un territorio e di una comunità molto più vasta.
2) L’altro elemento sul quale dobbiamo esistito nel piano pastorale è quello della formazione, come diceva don Angelo, perché è un po’ una lacuna. Come cristiani tendiamo a formarci poco. Allora, stiamo investendo sulla formazione dei catechisti, stiamo investendo sulla formazione degli operatori della carità. Ecco, più in generale sentiamolo questo bisogno della formazione, anche si parla ormai molto spesso di autoformazione, cioè leggiamo i documenti, leggiamo il magistero, no? Quello che esce a livello anche ecclesiale, il dibattito. Per ora c’è questo sinodo che sta investendo la Chiesa universale, ormai si sta chiudendo. Allora, questa sfida della sinodalità, cioè del camminare insieme, è importante. Allora, la formazione è un bisogno perché in questi tempi in cui ci confrontiamo con persone di altre religioni, di altre culture e anche di altre sensibilità, se non siamo formati il confronto non lo reggiamo.
3) L’altra sfida che abbiamo inserito all’interno del piano pastorale, dove dicevo prima, è quella dei giovani.
Anche qui eh è una questione che ci portiamo avanti ormai da diversi decenni. Il problema, cari amici, è che la situazione è sempre più grave. Ormai, per darvi un dato, l’uso delle sostanze per i nostri ragazzi inizia a 12 anni. Cioè, ci sono nella nostra città di Roma, ragazzini a 12 anni che è già fanno uso di sostanze. L’altro giorno sono stato in visita al Gemelli, mi ha colpito che tra i vari reparti, c’è un reparto per disturbi psichiatrici. Ragazzini che arrivano lì con istinti suicidi, non perché nascono malati, ma perché nel breve arco della loro vita accade qualcosa tale per cui arrivano anche a quello. E’ un problema. Allora io mi rendo conto, io sono stato parroco ed era come un’anguilla la pastorale giovanile, non sapevo come prenderla. E allora cercando le occasioni di incontro, l’oratorio, il calcetto, le altre cose. Sì, però poi ti scappano. E lo stare insieme, il gruppo estivo, però poi non li acciuffi. Intanto è importante avere coscienza, una comunità che si può il problema dei ragazzi e dei giovani, se lo pone il problema perché è un problema e in base alle proprie disponibilità prova ad aprire anche delle strade nuove, che partono innanzitutto dall’ascolto di questi ragazzi. Non dobbiamo mai giudicarli. Qui ci siete tante mamme e tanti papà, non vanno giudicati. Non sono sbagliati i ragazzi di questi tempi. A volte fanno delle cose sbagliate, ma non sono sbagliati. Allora, anche come pastorale giovanile, per esempio, abbiamo lanciato la proposta di una formazione per tutto quello che è il mondo del media, perché quello è un mondo parallelo al quale noi non siamo sufficientemente attrezzati e stiamo col fatto che ci sarà la giornata mondiale dei giovani, il giubileo dei giovani, abbiamo lanciato delle proposte concrete di animazione di pastorale giovanile.
4) L’altro elemento è quello della missione. Anche qui ormai si sta per chiudere il mese missionario e ci piacerebbe che le nostre comunità fossero un po’ più attente alla dimensione missionaria, cioè tutta quella realtà che è fuori dalle nostre. Giovanni Paolo II prima, poi Papa Ratzinger, adesso Papa Francesco ci dicono: attenzione. Perché la missione ce l’abbiamo in casa, e quindi comunità missionaria significa comunità aperte verso tutti coloro, e sono la maggior parte, che non frequentano una parrocchia. Se questa parrocchia, buona che funziona bene, ha al proprio interno il 5% dei battezzati. Vuol dire che il 5% dei battezzati del territorio di questa parrocchia frequentano la parrocchia. Il 95% dei battezzati, non parliamo di persone di altre religioni, non la frequentano. E allora che facciamo? Ce ne stiamo a guardare, quanto è bello, quanto è piena la chiesa? Io ricordo sempre per citare mio padre, io ho una sorella più grande, ed io 3 anni più piccolo, mi piaceva un po’ stare a casa, studiare, leggere, eccetera. Mia sorella un tantino più vivace. Allora, quando arrivava papà dalla campagna e mi trovava a casa, non c’è stata mai una volta che mi ha fatto un complimento, che bello che ti trovo a casa. La prima domanda che mi faceva era: “Dov’è tua sorella?” Io sono convinto che se il buon Dio arrivasse nelle nostre assemblee, non ci direbbe “Che bello che vi trovo riuniti”. La prima cosa che porrebbe come domanda è: “Dove sono gli altri fratelli?” Noi possiamo, o rispondere come Caino, “ sono forse io il custode del mio fratello”, oppure farci qualche domanda a nostra volta, “dov’è il mio fratello?” Quelli che non frequentano, adesso, senza scendere nel dettaglio, ognuno è libero di fare quel che vuole, però sta di fatto che c’è una fetta ampia, ampissima di persone battezzate che hanno ricevuto gli altri sacramenti che vengono in occasione di qualche funerale, di qualche matrimonio, di qualche cresima, che a un certo punto per motivi vari hanno staccato la spina. Loro avranno le loro ragioni. C’è stato qualcuno che li ha avvicinati dicendo: “Fratello mio, che succede?”. A me colpì una volta in parrocchia, a un certo punto non vidi più una famiglia che era una di quelle che mediamente frequentava la domenica. Non la vidi più. Sì era una zona di mare per cui d’estate eravamo 40.000, d’inverno rimanevamo 3-4.000 persone. Provai a chiedere e andai a trovarla. Dico ma che succede? Da mesi che non vi vedo. Erano entrati dei testimoni di Geova. Io mi sono messo in ascolto, dico, ma perdonate, come mai? Don Baldo, è morto mio padre, mi ha detto questa ragazza che aveva una quarantina d’anni. Io della comunità parrocchiale non ho visto nessuno. Questi si sono avvicinati, mi hanno raccontato alcune cose, mi hanno parlato della Bibbia, ogni settimana venivano a trovarmi. Adesso, possiamo riflettere se era se erano visite libere, se erano pilotate da interesse, usciamo da questa logica. Quelle persone in un momento particolarissimo della loro vita non hanno incontrato più la comunità. Hanno sperimentato la vicinanza di altri appunto da dire: sai che c’è? Questa cosa strana che si chiama testimoni di Geova, mi piace perché avuto la prossimità. Quando la nostra diocesi alcuni anni fa ha fatto un periodo di ascolto, una delle cose trasversali che emergeva in tutte le categorie, giovani, ragazzi, famiglia, anziani, detenuti e ammalati negli ospedali, nelle case di cura, La nota costante era: “Vogliamo una chiesa che sia prossima, cioè vicina“. Allora, quando parliamo di missione, intendiamo esattamente questo, cioè provare a sperimentare questa missionarietà. Non vengono? andiamo! Dobbiamo sperimentarlo. In tanti ricordano la missione popolare che si fece in occasione del giubileo del 2000 che partiva proprio da questa idea, “un popolo in missione”, cioè andiamo a trovare noi i fratelli che hanno deciso di non venire più. Dobbiamo imporre qualcosa? Assolutamente nulla. Dobbiamo dire “noi siamo qua, ci piacerebbe condividere quello che abbiamo”, cioè il Vangelo di Gesù Cristo che è speranza, che è forza.
5) L’ultimo elemento e poi mi fermo perché non volevo farvi un’altra predica, così magari abbiamo un po’ il confronto, l’ultimo passaggio è quello di cercare di realizzare durante quest’anno dei segni concreti di speranza. Sapete che il tema del giubileo è pellegrini di speranza. Il Papa ha pubblicato una bolla di indizione dell’anno santo, c’è un documento ufficiale e dice a tutti: attenzione, noi accogliamo la speranza che viene da Dio, perché lui è la nostra speranza. Però come cristiani, anche come comunità, dobbiamo compiere dei segni di speranza. Il Papa fa un esempio che noi abbiamo preso e declinato. Io ve ne dico alcuni che trovate nel testo, poi ripeto, se riuscite a fare qualcosina sarebbe una cosa buona. Ad esempio, noi abbiamo moltissime famiglie che arrivano da altri paesi. Per motivi di lavoro per lo più dal Sud America, dall’Asia, alcuni anche dalla Cina, tantissime persone, dall’Africa. Queste famiglie con grande difficoltà trovano una casa dove abitare, un lavoro. I figli non parlano la lingua italiana, li iscrivono a scuola perché il sistema pubblico me lo permette. Questi bambini non parlano in italiano, quindi succede che dopo qualche settimana questi poveri figli vengono ritirati da scuola, perché non capiscono nulla. La famiglia, i genitori non possono permettersi il doposcuola perché ci vogliono soldini che non hanno. Sti ragazzi rimangono senza educazione scolastica e a loro rimane come unica possibilità la strada con tutti i pericoli che la strada propone, no? Allora, questo è un classico esempio di una comunità cristiana che si pone il problema. Abbiamo lanciato l’idea l’anno scorso di doposcuola all’interno delle parrocchie a costo zero. In tutte le parrocchie ci sono almeno un centinaio di insegnanti in pensione, che hanno fatto benissimo il loro il loro ministero di insegnanti, la loro missione di insegnante. Adesso sono in pensione. Ogni parrocchia, un poco di locali ce ne ha. Si tratta di organizzare un servizio, che non è immediatamente evangelico, ma che diventa Vangelo vissuto. L’abbiamo lanciata, e nell’arco di qualche mese, da che erano 10, poi sono diventate 13, attualmente sono una cinquantina. Abbiamo detto: perché questa cosa non riusciamo a farla, non proviamo a farla, non dico in tutte le parrocchie della diocesi che sono oltre 300, ma almeno in 200 parrocchie della diocesi? Ripeto, ci vuole poco per organizzare. Si lancia, si annuncia nelle messe la domenica, si fa circolare qualche volantino sui social, eccetera, si raccoglie la disponibilità di qualche insegnante in pensione, si organizza qualche spazio, si rende pubblico il fatto che c’è un doposcuola. Io ho visitato diverse parrocchie, anche parrocchie messe peggio di voi in termini di locali, ma veniva per il piacere un insegnante che prendeva quei due tre ragazzini del Bangladesh, dell’Indonesia, africani, egiziani, se li metteva accanto e li accompagnava. È un segno di carità, un segno di grande attenzione. E ancora c’è il tema della povertà abitativa, questo tema va ben oltre la nostra città. Si potrebbero sperimentare delle forme o per venire incontro o a chi non a casa oppure sostenere chi la casa la sta perdendo. Pensate che ogni giorno nella nostra città ci sono decine di sfratti. Allora una parrocchia se è a conoscenza di qualche famiglia che sta attraversando un momento di difficoltà, così come si aiutano coloro che non riescono ad arrivare a fine mese, si può prendere carico in una famiglia per sostenerla finché non avvenga quello sfratto. Io la settimana scorsa sono stato in una zona della Casilina, mi piangeva il cuore vedere per strada mamme in attesa, mamme con figli piccoli, perché il comune a un certo punto aveva imposto lo sfratto, non pagavano, cose di cui siamo purtroppo a conoscenza. Dico, noi come chiesa dove siamo? Cosa possiamo fare? Ripeto, è un problema grandissimo, però queste proposte che voi trovate nel piano pastorale, almeno alcune le possiamo realizzare per essere segni di speranza, perché altrimenti rischiamo di fare il bel pellegrinaggio alla porta santa, passiamo, facciamo un bel lavaggio universale di tutti i peccati della vita passata, usciamo da lì, diciamo, perfetto, ricominciamo da capo, abbiamo pulito la lavagna, quindi possiamo ricominciare da capo, ma non rimane nulla. Ecco, questo è il giubileo che ci chiede di essere segno concreto di speranza in un tempo in cui, come diceva l’omelia, la speranza è un po’ in rosso. E allora abbiamo come comunità il dovere di riportare l’asticella almeno verso il verde. Verde speranza, no? Almeno così si dice dalle nostre parti. Allora, queste cose le trovate spiegate nel piano pastorale. Spero di non avervi riempito la testa di troppe cose, però con molta semplicità, con molta serenità, magari le rivedete e provate a dire su cosa possiamo investire di più. Quali sono magari quegli aspetti nei quali siamo rimasti un po’ più indietro. E aiutati da questo piano pastorale potremmo fare qualche passettino in avanti, pian pianino. Incontrandosi, confrontandosi, studiando, studiando alcune questioni. Pian pianino qualche passo si può fare.
Spero di non essere stato né troppo lungo, né troppo complicato, però se vi fa piacere, mi farebbe piacere, magari possiamo confrontarci o sulle cose che vi ho detto oppure su altre cose che vi stanno a cuore
Don Stefano: il dopo scuola ce l’abbiamo già, è attivo da prima che arrivassi io in parrocchia, ed è un gruppo abbastanza nutrito.
Dialogo.
Teresa: Esprime il timore che i ragazzi, una volta terminato il percorso del catechismo e della cresima, possano allontanarsi dalla comunità, perdendo quel punto di riferimento che li ha sinora accompagnati nella crescita in parrocchia.
Reina affronta il tema generale della “maternità della Chiesa”, evidenziando la necessità di una comunità che si prenda cura dei giovani, offrendo loro strumenti per affrontare le sfide della vita. Parla di prevenzione, formazione e di uno sguardo attento ai bisogni dei ragazzi, sottolineando l’importanza di un linguaggio adeguato e di temi rilevanti per la loro vita, come l’affettività e l’attenzione alla trasformazione del loro corpo, spesso trascurati nella catechesi tradizionale.
Renata: da catechista e mamma, condivide l’esperienza positiva di coinvolgere i ragazzi del post-cresima come esempio per i cresimandi più piccoli. Questa iniziativa, basata sulla testimonianza dei coetanei e su un linguaggio vicino al mondo giovanile, ha favorito la partecipazione e la continuità nel percorso di fede.
Simona: Sottolinea la rapidità del cambiamento e la vorticosità del mondo moderno, chiedendosi quale messaggio duraturo si possa trasmettere ai ragazzi, che rimanga valido anche al di fuori della comunità.
Reina riconosce la complessità della domanda e incoraggia a seminare a livello personale, come genitori, catechisti ed educatori. A livello comunitario, evidenzia il valore di un’accoglienza costante e incondizionata, che faccia sentire i ragazzi amati e sostenuti, a prescindere dalle loro scelte. La comunità deve essere un luogo dove sentirsi accolti e amati, un porto sicuro dove poter tornare anche dopo essersi allontanati.
Roberta: Condivide la sua esperienza come accompagnatrice del gruppo giovanile dai 19 ai 30 anni assieme al marito, inizialmente segnata da un senso di inadeguatezza. Sottolinea l’importanza dell’accoglienza e della dimensione affettiva, fondamentali per creare un legame con i ragazzi.
Reina ne accoglie la testimonianza evidenziando come l’accoglienza affettiva sia il messaggio più importante, quello che rimane impresso nel cuore.
Vera: Riflettendo sulla sua esperienza di italo-albanese, evidenzia la chiusura che caratterizza il quartiere e la difficoltà di integrazione per gli stranieri. Invita a una maggiore apertura verso l’altro, per abbattere i pregiudizi e creare una vera interculturalità.
Reina concorda sulla necessità di una mentalità inclusiva e sull’importanza di creare ponti e occasioni di conoscenza tra culture diverse. La parrocchia può essere un laboratorio di integrazione, dove sperimentare concretamente la fraternità e scoprire la ricchezza dell’incontro con l’altro.
Diacono Ivo: Sottolinea l’importanza della corresponsabilità e di un linguaggio nuovo per aprirsi al territorio. Condivide l’esperienza positiva della parrocchia nell’andare incontro alle famiglie, anche al di fuori dei momenti tradizionali, come in occasione delle benedizioni, e nell’affrontare diverse forme di povertà.
Reina introduce il concetto di “territorio che ha una parrocchia” in cui è la comunità a mettersi al servizio del territorio. La parrocchia deve “incarnarsi” nella realtà locale, comprendendone i bisogni e offrendo risposte concrete. Cita l’esempio del barbonismo domestico, una forma di povertà nascosta che evidenzia la necessità di un’azione capillare sul territorio.
Massimiliana: Testimonia la vitalità dei giovani ministranti, portatori di gioia ed entusiasmo nella comunità. Allo stesso tempo, ricorda l’importanza di non dimenticare gli anziani nelle case di riposo, che hanno bisogno di sentirsi parte della comunità parrocchiale.
Reina conferma la gravità del tema della solitudine degli anziani. Critica la pratica di interventi sporadici e superficiali, sottolineando l’importanza di un servizio stabile e costante che faccia sentire gli anziani amati e accompagnati. Invita a riscoprire la bellezza di prendersi cura dei nostri “genitori” nella comunità.